La Dama di Shalott

Massimo Gusmano

La Dama di Shalott è la protagonista del poema romantico omonimo del poeta inglese Lord Alfred Tennyson. In quest’opera (uscita in prima edizione nel 1833 e in seconda nel 1842), la Dama vive in una torre sull’isola di Shalott, in un fiume vicino Camelot, il leggendario regno di Re Artù.
A causa di una maledizione, però, non può guardare verso la città, altrimenti morirà all’istante: ecco che così deve “spiare” il mondo esterno attraverso uno specchio, tessendo quel che vede su una tela magica.
Un giorno, attraverso lo specchio, vede Lancillotto: si invaghisce di lui e, stanca della vita vissuta fino a quel momento, guarda fuori verso l’uomo di cui si è innamorata. Poi sale in barca e si lascia portare dalla corrente fino a Camelot, dove però arriverà morta.
Così la vede Lancillotto, che dice: «Ha un bel viso / Dio nella sua misericordia le conceda la pace».

Shalott

Ecco la poesia:
Lungo entrambe le rive del fiume si stendono vasti campi di orzo e segale che rivestono la brughiera fino a incontrare il cielo; e attraverso i campi corre la strada verso la turrita Camelot; e la gente va e viene, guardando dove i gigli sbocciano attorno all’isola, lì sotto, l’Isola di Shalott.
Salici impalliditi, pioppi tremuli, lievi brezze si oscurano e fremono nella corrente che scorre perpetua intorno all’isola nel fiume, fluendo verso Camelot. Quattro mura grigie, quattro torri grigie sovrastano un prato di fiori, e l’isola silenziosa dimora la Signora di Shalott.
Solo i mietitori, falciando mattinieri, nell’orzo barbuto odono una canzone che echeggia lietamente dal fiume che limpido si snoda, verso la turrita Camelot. E sotto la luna lo stanco mietitore, ammucchiando covoni sull’arioso altipiano, ascoltando sussurra «È la maga» la Signora di Shalott.
Lì intesse giorno e notte una magica tela dai colori vivaci. Ed aveva sentito una voce secondo cui una maledizione l’avrebbe colpita se avesse guardato verso Camelot. Non sapeva quale fosse la maledizione. E così tesseva assiduamente, ed altre preoccupazioni non aveva, la Signora di Shalott.
E muovendosi attraverso uno specchio limpido appeso di fronte a lei tutto l’anno, ombre del mondo appaiono. Lì vede la vicina strada maestra snodarsi verso Camelot; ed a volte attraverso lo specchio azzurro i Cavalieri giungono cavalcando a due a due lei non ha alcun Cavaliere leale e fedele, la Signora di Shalott.
Ma con la tela ancor si diletta ad intessere le magiche immagini dello specchio, perché spesso attraverso le notti silenti un funerale con pennacchi e luci e musica andava a Camelot; o quando la luna era alta, venivano due innamorati sposati di recente. «Mi sto stancando delle ombre» disse la Signora di Shalott.
A un tiro d’arco dal cornicione della sua dimora, lui cavalcò fra i mannelli d’orzo. Il sole giunse abbagliante fra le foglie, e splendente sui gambali di ottone del coraggioso Sir Lancelot. Un cavaliere con la croce rossa perpetuamente inginocchiato ad una dama nel suo scudo, che scintillò sul campo giallo, presso la remota Shalott.
La sua fronte ampia e chiara scintillò al sole; con zoccoli bruniti il suo cavallo passava; da sotto il suo elmo fluirono, mentre cavalcava, i suoi riccioli neri come il carbone, Mentre cavalcava verso Camelot. Dalla riva e dal fiume egli brillò nello specchio di cristallo, “Tirra lirra” presso il fiume cantò Sir Lancelot.
Lasciò la tela, lasciò il telaio, fece tre passi nella stanza, vide le ninfee in fiore, vide l’elmo ed il pennacchio, e guardò verso Camelot. La tela volò via fluttuando spiegata; lo specchio si spezzò da cima a fondo «La maledizione mi ha colta» urlò la Signora di Shalott.
Nel tempestoso vento dell’est che sferzava, i boschi giallo pallido si indebolivano l’ampio fiume nei suoi argini si lamentava. Dal cielo basso la pioggia scrosciava sopra la turrita Camelot; lei discese e trovò una barca galleggiante presso un salice, e intorno alla prua scrisse la Signora di Shalott.
Ed oltre la pallida estensione del fiume come un’audace veggente in estasi, che contempli tutta la propria mala sorte – con una espressione vitrea guardò verso Camelot. E sul finir del giorno mollò gli ormeggi, e si distese: l’ampio fiume la portò assai lontano, la Signora di Shalott.
Si udì un inno triste, sacro cantato forte, cantato sommessamente finché il suo sangue si freddò, lentamente ed i suoi occhi furono oscurati completamente, volti alla turrita Camelot. Prima che, portata dalla corrente, raggiungesse la prima casa lungo l’argine canticchiando il proprio canto morì la Signora di Shalott.
Sotto la torre ed il balcone vicino il muro del giardino e la loggia lei galleggiò, figura splendente di un pallor mortale, tra le case alte silente dentro Camelot. Vennero sulla banchina il cavaliere, il cittadino, il Signore e la Dama e intorno alla prua lessero il suo nome La Signora di Shalott.
Chi è? Che c’è qui? Nel vicino palazzo illuminato si spensero i regali applausi e, per la paura, si segnarono tutti i cavalieri di Camelot. Ma Lancillotto rifletté per un po’ e disse «Ha un bel viso; Dio nella sua misericordia le conceda la pace la Signora di Shalott».

La leggenda della Dama di Shalott mi richiama alla mente quanto la sua condizione sia simile alla nostra. Anche noi siamo costretti a guardare il mondo riflesso da uno specchio; non possiamo guardarlo direttamente, altrimenti moriremmo, e ne cogliamo solo vaghe immagini con le quali costruiamo la nostra personale “tela”, la nostra soggettiva rappresentazione della realtà. Cosa significa più precisamente? Le antiche tradizioni orientali ci parlano di Maya. Cosa e chi è Maya? Maya è il potere divino che produce la manifestazione, cioè le forme del mondo a noi percepibili attraverso la sua “arte” (come traduce il termine “Maya” Coomaraswamy). Maya è quindi l’Architetto divino, il potere femminile attraverso cui l’Intelletto divino agisce; è la generatrice.
Maya, non a caso, è la madre del Buddha e, presso i greci, Maia è la madre di Ermete. Il suo “velo” è il tessuto di cui si compone la manifestazione universale: ai nostri occhi ciò che ci circonda è solido, reale, separato dal Principio, è la realtà vera, ed è questa “l’illusione”. “E muovendosi attraverso uno specchio limpido appeso di fronte a lei tutto l’anno, ombre del mondo appaiono“. l’illusione è quindi nel nostro modo di percepire; ciò che vediamo (ciò che la dama vede riflesso nello specchio) è un realistico inganno, ma non è non-esistente; è solo una falsa apparenza, una minore realtà in relazione all’Assoluto. Il “velo-specchio” illusorio è generato nella leggenda da una “maledizione” che è la nostra ignoranza la quale non ci consente di vedere la vera natura del mondo, dei fenomeni e di noi stessi. La dama, attraverso lo specchio, è però consapevole che non sta guardando la “turrita Camelot” ma solo un suo riflesso.
Nella leggenda, quindi, esiste anche una possibilità di riscatto: «Mi sto stancando delle ombre», dice la dama e, quando vede Lancillotto, decide di guardare direttamente il cavaliere e il mondo là fuori; questo cancella la tela (la sua rappresentazione del mondo), spezza lo specchio ed il suo incantesimo, e la uccide. ”Lasciò la tela, lasciò il telaio, fece tre passi nella stanza, vide le ninfee in fiore, vide l’elmo ed il pennacchio, e guardò verso Camelot. La tela volò via fluttuando spiegata; lo specchio si spezzò da cima a fondo «La maledizione mi ha colta» urlò la Signora di Shalott”. È dunque possibile attraverso un atto di coraggio, una volontà di intraprendere un percorso di svelamento, potremmo dire “spirituale”, stimolato e sostenuto dall’amore (Lancillotto) “squarciare il velo di Maya”.
Si allude qui ad un percorso iniziatico dove la morte della dama non è altro che una “morte iniziatica” che consente la trascendenza in un altro stato dell’essere; una trasformazione necessaria per poter accedere a livelli più sottili del nostro essere ed in seguito a stati sovra-umani fino alla completa Liberazione. Lancillotto, il principio d’amore, accoglierà la dama nel suo abbraccio salvifico. “Ma Lancillotto rifletté per un po’ e disse «Ha un bel viso; Dio nella sua misericordia le conceda la pace la Signora di Shalott».

Massimo Gusmano

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